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La recente proposta d'introdurre l'insegnamento dell'Islam nelle scuole italiane ha riportato al centro dell'attenzione il ruolo della scuola nelle politiche di integrazione culturale. Non c'è dubbio che la scuola abbia un'importanza cruciale in questo campo, eppure la soluzione intravista è una risposta sbagliata ad un problema reale. L'Italia è un Paese che, pur essendo uno stato laico, vede una confessione religiosa (quella cattolico-romana) godere di un privilegio iniquo: quello di impartire l'insegnamento della religione cattolica (IRC) nelle scuole pubbliche con insegnanti da essa selezionati ma pagati coi soldi di tutti i contribuenti. Ora, si vorrebbe gravare la scuola statale di un altro insegnamento religioso: quello dell'Islam per favorire l'integrazione degli studenti di famiglie musulmane. Il vizio di fondo dell'IRC, invece di essere risolto, viene esteso ed amplificato ulteriormente. L'ora di Islam è sbagliata come lo è l'IRC per il fatto che la scuola statale non è la sede per impartire l'insegnamento religioso, qualunque esso sia. Questo compito spetta alle famiglie e alle istituzioni religiose preposte. Piuttosto che introdurre un altro insegnamento confessionale, perché non si mette mano all'abolizione dell'IRC e non si lavora per una legge per la libertà religiosa che finalmente introduca nel nostro Paese una legislazione rispettosa di tutte le componenti religiose in un quadro di laicità ed uguaglianza? Solo così ci potrà essere integrazione, anche della minoranza islamica.

Alleanza Evangelica Italiana
Vicolo S. Agata 20
00153 Roma
www.alleanzaevangelica.org

Gesù disse: "Ci saranno carestie e terremoti in vari luoghi..." (Matteo 27:7)

Questa ed altre affermazioni sono state esegeticametne torturate e citate ogni volta che gli uomini hanno dovuto riflettere sulla potenza distruttrice degli elementi naturali.

Dopo il terremoto in Abruzzo e le catastrofi provate dal terremoto a Sumatra, da uno tsunami a Samoa e dall'inondazione che ha travolto Giampilieri e Scaletta Zanclea qui in Sicilia, proponiamo ai lettori del sito una riflessione biblica sui "segni dei tempi" scritta dal past. Alan Dunn.

Chi ne volesse delle copie cartacee può richiedercele liberamente.

Per scaricare l'opuscolo cliccate sull'immagine

crownJohn Piper

«Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti» (Marco 10:45).

+La Bibbia non suggerisce mai l’idea che, per permettere ai peccatori di essere salvati, Satana andasse ripagato. Quello che accadde a Satana quando Cristo morì non fu un pagamento, ma una sconfitta. Il Figlio di Dio divenne uomo «per distruggere, con la sua morte, colui che aveva il potere sulla morte, cioè il Diavolo» (Ebrei 2:14). Non ci fu alcun negoziato.

Quando Gesù disse di essere venuto «per dare la sua vita come prezzo di riscatto», non intendeva concentrare l’attenzione su chi avrebbe riscosso il pagamento, ma sulla sua vita come pagamento e sulla sua volontà di servire piuttosto che di essere servito, come anche sui «molti» che avrebbero tratto beneficio dal pagamento di tale riscatto.

Alan Dunn

Lot non prese Abramo molto sul serio. È vero, andò con lui, quando emigrò da Ur. D’altronde, cos’altro poteva fare? Suo zio Abramo era diventato il suo padre putativo da quando era morto Aran, il suo padre biologico. Di certo Lot sapeva del fatto che Dio aveva parlato ad Abramo e che gli aveva promesso di dargli una progenie e delle terre. Aveva certamente appreso  anche della dedizione di Abramo e della sua devozione verso Dio, perché o vedeva adorare agli altari dei sacrifici. Era stato testimone del modo in cui Dio aveva liberato Abramo dall’Egitto dopo che aveva mentito su sua moglie Sarai. Di certo il faraone, che aveva cercato di aggiungere Sarai al suo harem, prese sul serio Abramo quando scoprì che, in realtà, si trattava della moglie d’Abramo e il Signore colpì il faraone e la sua casa con grandi piaghe (Gen. 12:17). Per quanto tutto questo fosse assai significativo, ciò che colpì Lot fu la quantità di ricchezze ammassate da Abramo, beni che si riversarono anche su di lui.

tastieraNazzareno Ulfo (*)

" Il Grande Fratello vi guarda" (George Orwell)

La mia generazione è quella che ha cominciato a “giocare” con il Commodore 64, una macchina che possedeva soltanto 64 K di memoria operativa, era priva di memoria fissa e leggeva i dati da un registratore a nastro. Siamo stati i primi a scrivere e stampare autonomamente la tesi di laurea grazie al PC e ai primi programmi di word processing. Ricordiamo anche il rilancio editoriale e le discussioni dei media sul romanzo di fantapolitica scritto da George Orwell e pubblicato nell’ormai lontanissimo 1948 dal titolo 1984. L’anno di Orwel era giunto e ci si interrogava sulle sue intuizioni e sulle sue “profezie”. A ventitrè anni di distanza, il “Grande Fratello” viene associato soltanto da pochi ad un regime opprimente che utilizza la tecnologia come mezzo di controllo della vita e delle coscienza degli uomini; in altri, al massimo, suscita qualche riflessione su ciò che “fa audience”, sul cattivo gusto dei programmi televisivi o sul vuoto torricelliano di una certa cultura giovanile contemporanea… ma non dovrebbe essere così! L’intreccio tra tecnologia e stile di vita, etica sociale, coscienza individuale e tirannia merita maggiore attenzione e ben più profonde riflessioni.

Sebbene il progresso tecnologico, che negli ultimi duecento anni ha seguito un modello di sviluppo esponenziale, abbia fatto riflettere e inquietato più di un pensatore, l’atteggiamento dei più rimane prevalentemente quello dell’utente più o meno entusiasta, ma generalmente acritico. Eppure l’introduzione, sempre più invadente e pervasiva, di macchine che hanno velocizzato e semplificato molte delle attività umane, ha acceso un profondo dibattito tra coloro che s’interessano di storia e sanno molto bene che nessuna tecnologia è “neutra” ma che ogni innovazione in questo campo ha sempre agito come catalizzatore del mutamento sociale e culturale.

La tecnologia del computer ha determinato la nascita della cibercultura ovvero di una “società digitale” (1), ed ha acceso un dibattito che è destinato a non esaurirsi così presto. Prova ne sia l’ampiezza degli ambienti coinvolti: da quello accademico, a quello politico, a quelli “popolari” del cinema, della carta stampata e della televisione (2).

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