Sermone predicato domenica 8 febbraio 2009 al culto mattutino.
Di Nazzareno Ulfo
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Lettura biblica: 1 Timoteo 1:1-11
Nella polemica che M. Lutero sostenne con Erasmo da Rotterdam sulla questione del libero/servo arbitrio, ad un certo punto, usò parole assai taglienti nei confronti del suo interlocutore rimproverandolo: «[Erasmo tu] pensi a Dio in modo troppo umano»[1]. Il rischio di umanizzare la divinità, di crearci un dio a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza, è sempre in agguato. Affinché ciò non accada Dio ha dato al suo popolo la Bibbia. Il cristianesimo, infatti, si differenzia da ogni forma di paganesimo e dalle varie filosofie religiose perché ha una forte dottrina della rivelazione. Il cristianesimo è una religione rivelata e Dio, sebbene abbia lasciato dappertutto, nel creato, i segni della sua maestà, divinità e sapienza (cfr. Romani 1:19-20), volendo comunicare una conoscenza certa e oggettiva di sé, volendo mostrarsi in modo più pieno e sicuro alle sue creature, tra le infinite scelte che avrebbe potuto fare e metodi che avrebbe potuto impiegare, ha voluto usare il mezzo del linguaggio umano. «Dio ha parlato in molti modi e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio…» (Ebrei 1:1,2). Nel corso della storia umana governata dalla sua provvidenza Dio si è rivelato preparando e utilizzando degli uomini e, tramite questi, ha dato al mondo “la sua Parola” (quella con la P maiuscola) e ha posto nelle mani del suo popolo “La Scrittura” (sempre con la S maiuscola). L’apostolo Paolo afferma che tutta la Scrittura dell’AT è «alitata da Dio» e la qualifica come «utile ad insegnare, a riprendere a correggere, a educare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2 Timoteo 3:16). Anche san Pietro afferma che: «nessuna profezia della Scrittura proviene da un’interpretazione personale; infatti nessuna profezia venne mai dalla volontà dell’uomo, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché dallo Spirito Santo sospinti» (2 Pietro 1-20-21). Quindi, se vogliamo conoscere Dio dobbiamo rivolgerci alla Scrittura e deporre e rifiutare le nostre fantasie e i nostri stessi desideri.
Ora, cosa ci dice intorno a Dio il brano che abbiamo appena letto? Intanto ci dice che è un Dio che “ordina, che comanda” ed esegue i suoi decreti (v. 1), quindi impariamo che egli possiede una volontà ed anche l’autorità e la potenza necessarie per eseguire i suoi ordini. Che è un Dio dal quale procedono “grazia, misericordia e pace” (v. 2), che, quindi, possiede una natura morale e ha creato un universo morale (cfr. v.8ss). Che è all’opera in questo mondo (v. 4), e che quindi non è distaccato e avulso dalla sua creazione. Tutte cose, queste, che meriterebbero di essere spiegate e considerate con attenzione. Tuttavia c’è una “informazione” su Dio o, meglio, una rivelazione sul suo carattere che spesso passa inosservata in questo passo. Si trova al v. 11 dove leggiamo che Paolo definisce a parla di Dio come del “Dio beato”. Si consideri che soltanto qui e più avanti nella stessa epistola (1 Timoteo 6:15) troviamo questo aggettivo riferito alla persona di Dio. Si tratta di “parola alitata da Dio”? Noi crediamo di sì! È quindi una rivelazione intorno a Dio questa? Noi crediamo di sì! E dobbiamo impegnarci a capire cosa significa che “Dio è beato” e comprendere cosa ciò comporti per noi e per il mondo intero.
Esegesi del testo.
Immediatamente prima di parlare del “Vangelo della gloria del beato Dio”, Paolo ha fatto cenno alla funzione della “legge”, intendendo riferirsi alla “legge morale” espressa nei dieci comandamenti. Egli – al v. 8 – dichiara la “bontà della legge” e parla di un “uso legittimo della legge”. Lo fa nell’ambito della polemica con i “legalisti”, coloro che affermavano che la giustizia divina, la “giustificazione” al suo cospetto non potesse essere ottenuta senza una scrupolosa e schiavistica sottomissione alla legge morale e cerimoniale. Paolo afferma che, ovviamente i cristiani hanno riguardo alla legge di Dio, ma precisa che lo scopo per cui ci è stata data non è quello di procurarci la giustizia di cui siamo mancanti al cospetto di Dio. Piuttosto, la legge, ci convince che siamo peccatori (ci mostra che siamo trasgressori), ci indica la via della perfezione e, soprattutto, ci spinge ad abbracciare il Vangelo, la buona notizia. La frase può tradursi sia come “il Vangelo glorioso del Dio beato”, sia come nella N. Riv. “il Vangelo della gloria del beato Dio”. Nel primo caso la gloria sarebbe attribuita al messaggio che, se creduto, giustifica e salva il peccatore, mentre, nel secondo caso, il riferimento sarebbe alle virtù e alle caratteristiche di Dio[2] che ha ci ha dato il Vangelo. Entrambi i significati sono accettabili… e possiamo scegliere quale preferire.
Tuttavia, come vi dicevo, quanto mi preme sottolineare oggi è l’attributo maka,rioj riferito a Dio che può benissimo tradursi “felice”… “La buona notizia della gloria del Dio felice”.
Cosa significa che “Dio è felice”
Nelle Scritture troviamo l’aggettivo “beato” (in ebraico ’esher e makàrios in greco) generalmente attribuito a uomini/donne/popolo. Questo termine ha solitamente un significato religioso e si riferisce a chi vive in comunione con Dio e riceve speciali benefici da Dio, soprattutto i benefici del perdono dei peccati (Salmi 32:1; Romani 4:8).
Il teologo riformato olandese H. Bavinck (1854-1921) afferma che quando viene ascritta a Dio (1 Timoteo 1:11; 6:15), la beatitudine ha tre componenti.
· In primo luogo esprime il fatto che Dio è perfezione assoluta, in quanto la beatitudine appartiene ad ogni essere che viva, e vivendo non sia impedito o disturbato da nulla di interno o di esterno.
Dunque, poiché Dio è perfezione assoluta, l’intera somma di tutte le virtù, l’Essere supremo, il sommo bene, la verità suprema, ecc., insomma poiché Dio è vita assoluta, è la sorgente di ogni vita, ed è anche il Dio assolutamente beato. Nelle Scritture «vita» e «beatitudine» sono strettamente correlate: la vita priva di beatitudine non è degna del suo nome e, nel caso dei figli di Dio, la vita eterna coincide con la beatitudine.
· In secondo luogo, con le parole «il Dio beato» si implica che Dio sia a conoscenza della sua perfezione assoluta e ne provi gioia.
La scolastica si divise sulla questione relativa alla possibilità che la beatitudine in Dio e negli uomini consistesse primariamente nella conoscenza o nell’amore. Indipendentemente dalla conoscenza o dalla coscienza non può esserci alcuna beatitudine. […]. Dio conosce se stesso in modo assoluto, e in modo assoluto ama se stesso. La conoscenza senza amore e l’amore senza conoscenza sono inconcepibili, e né l’uno né l’altro prevale.
· Il termine «il Dio beato», in terzo luogo, implica che Dio si diletti in se stesso in modo assoluto, che in modo assoluto riposi in se stesso e che sia assolutamente autosufficiente.
La sua vita […] è una quiete ininterrotta, una pace eterna. La predilezione di Dio per le sue creature fa parte della predilezione per se stesso: «Dio è la propria Pace. La Pace e Dio sono la stessa cosa. Per mezzo del suo intelletto Dio è pienamente consapevole della propria perfezione e, attraverso la sua volontà, l’ama in modo supremo, cioè riposa beatamente in essa e da tale riposo nasce la gioia, la gioia con cui Dio si diletta in se stesso in quanto sommo bene»[3].
Queste cose dette intorno a Dio hanno delle notevoli implicazioni… che considereremo tra pochissimo
Cosa costituisce l’oggetto della sua felicità
A parte queste belle e istruttive spiegazioni, credo che vi siano dei passi della Scrittura che sono molto noti a tutti noi che illustrano cosa sia la “beatitudine divina”. Dio perfettamente felice in se stesso e in tutto ciò che fa, si vedano:
· Genesi 1:31-2:2 dove si esprime questo senso di compiutezza e di pace perfetta, di compiacimento e perfino di gioia per l’opera compiuta. A ciò fa eco la beatitudine dell’uomo che si sente “completo” con la donna al suo fianco e, in armonia con il suo Creatore e con il creato prorompe in un canto di gioia: Genesi 2:23-25.
· Matteo 17:5. Dove, alla trasfigurazione di Cristo, il Padre dichiara il proprio diletto, compiacimento, gioia.
Sono molti i passi dell’AT e del NT in cui si parla della gioia e del compiacimento di Dio dove è detto di tutte le cose in cui egli prova diletto, si compiace, si rallegra[4]: nel Figlio - prima di tutto – (Matteo 17:5), in tutte le sue opere (Salmi 135:6) perché ciò che egli fa lo fa con piacere! Nella creazione (Salmi 104:30-31) perché gioisce nelle sue opere. Nel suo buon nome (1 Samuele 12:22) perché ci tiene e si cimpiace di avere una buona fama. Nell’elezione (Deuteronomio 10:14-15) perché “ha provato diletto” nell’amore esclusivo verso i patriarchi d’Israele. Nello stroncare il suo Servo con i patimenti (Isaia 53:13). Nel fare del bene a quelli che sperano in lui (Sofonia 3:17, Salmi 147:10-11). Nelle preghiere dei giusti (Proverbi 15:8 – è il suo “diletto”). Nel vedere pubblicamente onorata la giustizia (1 Samuele 15:22; Proverbi 11:1). Nel donare il regno ai suoi (Luca 12:32).
Ma non è forse questo un modo troppo “umano” di pensare a Dio?
Questo è quanto dice la Bibbia, eppure mi sembra già di sentire qualcuno ripetermi lo stesso rimprovero che Lutero rivolse ad Erasmo ed affermare che anch’io, penso a Dio “in modo troppo umano”, che questo “letteralismo” e questo “sentimentalismo” sono fuori luogo se consideriamo la natura di Dio. D’altronde la concezione classica di Dio sembra escludere la possibilità che in lui vi sia “emotività”. I migliori commentatori, quando nella Bibbia si trovano al cospetto di frasi che attribuiscono a Dio delle emozioni, affermano che devono essere interpretate metaforicamente a meno che non si voglia minare la sua trascendenza divina, la sua sovranità e immutabilità.
La nostra confessione di fede (la Confessione di fede Battista del 1689) dice così intorno a Dio:
Il Signore Iddio nostro è l'unico Dio vivente e vero. Egli sussiste in se stesso e di per se stesso; è infinito nel suo essere e nella sua perfezione. La sua essenza non può essere compresa da nessuno, se non da lui stesso. È spirito purissimo, invisibile, senza corpo, senza parti né passioni…
E questo è stato interpretato da alcuni nel senso che Dio sarebbe “impassibile”, che non provi in alcun modo nulla che possa essere assimilato alle “emozioni” o ai sentimenti umani. Questo “Dio impassibile” somiglia al dio dei filosofi greci, piuttosto che al Dio rivelato nella Bibbia.
Lo stesso Giovanni Calvino, commentando Genesi 6:6 «Il Signore si pentì d’aver fatto l’uomo e se ne addolorò in cuor suo», dice:
Il pentimento che qui viene attribuito a Dio non gli si addice in senso proprio, ma ha a che fare con la nostra comprensione. Infatti, dal momento che non possiamo comprenderlo per ciò che egli è, è necessario che si trasfiguri in un certo modo per amore nostro. Che Dio non si penta affatto è abbastanza risaputo, perché non gli accade niente che egli non abbia ben previsto e conosciuto. Quanto segue, cioè che si addolorò in cuor suo, ha uno stesso motivo e reca la medesima impronta. Certamente Dio non si rattrista e non si addolora affatto, perché resta sempre uguale a se stesso nel suo riposo celeste e beato; ma poiché non si potrebbe comprendere altrimenti quanto Dio odi il peccato e quanto lo detesti, lo Spirito Santo si adatta alle nostre capacità. […] Quanto viene soggiunto riguardo alla tristezza va nella stessa linea, cioè che Dio è offeso dai peccati commessi dagli uomini, come se gli si ferisse il cuore a morte. […] Questa figura retorica è stata definita “antropopatia”, vale a dire “sentimento umano”, ogni volta che Dio trasferisce in sé quanto appartiene propriamente alla natura dell’uomo.
È assai difficile dissentire da Calvino quando spiega un passo della Scrittura. E, affinché nessuno pensi che io pensi di poter essere un suo critico voglio dire che la sua spiegazione è pienamente soddisfacente… tranne quando dice che “Dio non si rattrista e non si addolora affatto”. Vero è che nulla muta né può mutare in lui, ma la mia domanda è: «Se non si rattrista perché dice che lo fa? E se è perfettamente e immutabilmente felice nel “suo riposo celeste e beato” esiste la possibilità che egli si rallegri “di più”?».
La verità è che, sebbene Dio non abbia “passioni umane” (forse è così che si dovrebbe corregge la nostra confessione) bisogna ammettere che i suoi sentimenti corrispondono ai nostri (essendo i nostri derivati dai suoi) ma sono “sentimenti divini”, ovvero: infinitamente perfetti e perfettamente puri. Egli vuol far sapere che conosce davvero il dolore e la gioia, e quando ce lo dice di sé stesso lo fa allo stesso modo di quando ci dice che egli pensa, vuole, agisce. Seppure bisogna ammettere che penetrare in queste profondità del suo essere ci sia davvero impossibile da questa parte del cielo, se così non fosse, saremmo costretti a dire che molti passi della Bibbia sono scritti per compiacere noi, piuttosto che per rivelare Dio e potremmo rispondere usando il titolo di una canzone dei Rolling Stones che Dio è “piacevolmente impassibile”… o magari con questa poesia:
Il Dio impassibile
Non c’è sofferenza in Dio, ti stai sbagliando
È solo per farsi capire che lo va dicendo.
Leggi che “s’addolora”? Ma non è vero.
Se dice che il suo cuore è “commosso”, non è sincero.
Ha forse Dio gli occhi? Orecchi o mano?
Suvvia, non pensare a lui in modo tanto umano!
È troppo trascendente per esser presente,
Per soffrire e provare le pene della gente
Sebbene il peso del male sia insopportabile
Dio rimane piacevolmente insensibile[5].
Io non dirò mai che “il Dio felice” di cui parla Paolo è “piacevolmente insensibile”! Piuttosto credo che Jonathan Edwards abbia detto qualcosa di molto preciso e soddisfacente a proposito dei sentimenti in Dio affermando che egli conosce e prova quelli dell’amore, del desiderio, della gioia, della compiacenza, dell’odio, dell’ira, ecc. ma li distingue dalle passioni dicendo che queste sono più esplosive, irrazionali, involontarie. Ovviamente nulla del genere è degno della persona di Dio[6].
In questo senso diremo che Dio non ha passioni, ma che, sicuramente ha sentimenti.
Cosa comporta tutto ciò per noi
Ma se Dio è felice e la sua felicità e vera ed reale… cosa significa per noi?
Questo fatto ci induce ad avere una visione della vita e della beatitudine (ovvero della felicità stessa) distintamente cristiane.
1. Solo in Dio possiamo trovare la felicità. Questo è un attributo “comunicabile” In questo mondo, in questa vita, si può essere felici, e questa felicità possiamo trovarla soltanto nel Dio felice. Nella comunione di una relazione con lui, nella pienezza della sua persona, nella perfezione del suo consiglio, nella certezza della sua sufficienza, nelle sue opere. Vivere, mangiare, bere, giocare, studiare, conoscere, scoprire, costruire, demolire non può darci la felicità, ed esserne privati non può togliercela. La beatitudine è prima di tutto una relazione con il Dio beato. Questa è la vera cura contro l’umanesimo e l’antropocentrismo del nostro tempo.
Queste considerazioni mi portano ad esprimermi sulla notizia che sta riempiendo le pagine dei giornali in questi giorni: la controversia sulla povera Eluana Englaro. Cosa ne sanno di cosa significhi “vivere” le persone che pensano di avere l’obbligo di prolungare indefinitamente – e in modo artificiale – la vita “biologica” di Eluana? Si può essere perfettamente felici anche se costretti a vivere su un letto d’infermità, ma se non si ha coscienza della vita, se non si hanno relazioni, se non si può godere di nulla… è questa vita? (Bavinck: vita = beatitudine). È proprio onorevole verso Dio rimanere attaccati alla vita biologica (perché di questo si tratta) in modo indefinito? Una cosa sola tratteneva l’apostolo Paolo dal “partire” per essere col Signore: il suo essere utile per gli altri (Filippesi 1;24). Nel momento in cui io non potrei essere più utile per alcuno, non avrei coscienza di me e delle persone che mi circondano, non avrei speranza di poter regredire dallo stato di coscienza e di qualche utilità, vorrei essere lasciato andare tra le braccia del mio Padre celeste. Non so se Eluana avesse la stessa speranza… ma almeno ha lo stesso diritto e non dovrebbe essere trattenuta in vita forzosamente. Questo è il mio testamento biologico.
2. La felicità non è un sentimento privato o soggettivo. Qualcosa da perseguire e poi, una volta ottenuto, goderlo da soli, o con pochi intimi, in un piccolo gruppo. La felicità deriva dal senso della compiutezza, della perfezione, dalla consapevolezza che si possiede di questo stato e del godere di esso. Abbiamo visto che Dio è felice così! E noi? Possiamo essere felici noi, esseri incompiuti e imperfetti, anzi corrotti per natura? Si, lo possiamo se crediamo in Gesù Cristo poiché è lui la nostra perfezione e poiché la fede è “certezza”, in lui possiamo avere la consapevolezza e il godimento del nostro stato, della nostra condizione al cospetto di Dio. In lui noi siamo parte del popolo di Dio, della chiesa, di coloro che hanno una “beata speranza” (Tito 3:13) e che sono “beati e santi” perché partecipano alla “prima risurrezione” (Apocalisse 20:6), perché custodiamo “le parole della profezia dei questo libro” (Apocalisse 22:7) e perché abbiamo lavato “le vesti per aver diritto all’albero della vita e per entrare per le porte della città!” (Apocalisse 22:14). Godiamo di questo e ricordiamoci che siccome è in nostro potere far felici altri, guai a noi se non lo facciamo!
[1] M. Lutero, Il servo Arbitrio, Torino, Claudiana, 1993, p. 104.
[2] “Gloria” è usato nel NT con due significati chiaramente espressi in Giovanni 12:41-43 dove, al v. 41 si riferisce alle magnifiche virtù della persona divina vista dal profeta Isaia, mentre, al v. 43, si riferisce alla “lode” o al “favore” ricevuto da uomini o da Dio.
[3] Herman Bavinck, La dottrina di Dio, Alfa & Omega… speriamo presto!!! Cap. V.
[4] Si veda John Piper, The Pleasures of God, dove tutti questi testi sono discussi ampiamente e in modo molto avvincente… come tutti i libri di Piper, d’altronde.
[5] La poesia è mia nel senso che l’ho tradotta (apportando qualche modifica, com’è ovvio nella traduzione delle liriche), ma l’idea è perfino l’espressione “piacevolmente impassibile” non lo sono. È apparsa in Inglese sul blog http://blog.rbseminary.org
«[6] Sovente si parla dei sentimenti e delle passioni come se si trattasse della medesima cosa, eppure, perfino nell’uso più comune dei termini, si può individuare una certa differenza di significato. Sentimento è una parola che, ordinariamente, viene usato per attribuire un valore più esteso di quello contenuto nel temine passione, poiché, […] esso è usato per tutti gli esercizi vigorosi e vivaci della volontà e dell’inclinazione. Diversamente, si usa la parola passione per descrivere un genere di attività più repentina e i cui effetti su tutto il corpo sono maggiormente violenti, poiché la mente stessa viene sopraffatta ed è indebolita nella capacità di controllarsi. Poiché tutti gli esercizi dell’inclinazione e della volontà riguardano l’approvazione e il piacere o la disapprovazione e il rigetto di qualcosa, i sentimenti sono di due tipi: quelli per i quali l’anima è attratta da cose alle quali si aggrappa e le cerca; e quelli per i quali prova avversione e vi si oppone. Alla prima categoria appartengono i sentimenti come l’amore, il desiderio, la speranza, la gioia, la gratitudine e la compiacenza. Alla seconda l’odio, il timore, l’ira, il dolore, ed altri che non è necessario definire adesso». Jonathan Edwards, I Sentimenti Religiosi, Caltanissetta, Alfa & Omega, 2003, p. 43.