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L’Apocalisse riconsegnata alla chiesa. Risvolti pastorali di una riappropriazione

Nazzareno Ulfo (*)

Benjamin Warfield, in un breve saggio, giudica l’Apocalisse come «il libro più difficile della Bibbia» affermando che tale difficoltà è dovuta alla pervasiva presenza di un «ardito simbolismo» (bold symbolism) e che, per questa ragione, «è stato [il libro della Bibbia] più differentemente compreso, arbitrariamente interpretato ed esegeticamente torturato» (1). In effetti, se ci si accinge a leggere e ad esporre il libro dell’Apocalisse senza possedere delle solide e ragionate premesse ermeneutiche, debitamente comprese e opportunamente applicate, si rischia di imbarcarsi in un’impresa che nel medio o nel lungo termine risulterà fallimentare.

L’adozione di principî ermeneutici traballanti spiega la ragione della prevalenza, in particolar modo nell’area evangelicale del cristianesimo contemporaneo, di un atteggiamento di tipo “schizofrenico” nei confronti dell’escatologia. La predicazione, l’editoria, l’innologia e – da qualche tempo - perfino la filmografia evangeliche evidenziano la prevalente diffusione di posizioni escatologiche estremistiche. Da una parte si osserva l’infatuazione del “fan escatologico”, e dall’altra si contrappone “l’indifferenza escatologica” di chi, con buona dose di pragmatismo, afferma di essere chiamato a misurarsi con le sfide quotidiane del “mondo reale” (2). Una divaricazione così netta – che spesso si riflette anche all’interno di chiese locali e nella predicazione - può spiegarsi secondo le dinamiche tipiche di ogni reazione squilibrata e disincantata a modelli ritenuti o rivelatisi erronei o difettosi. Per queste ragioni, per una lettura realmente proficua dell’Apocalisse, è necessario riflettere, allo scopo di individuare delle solide premesse ermeneutiche.

Primariamente sarà necessario affermare, senza alcuna indecisione e riserva, che l’Apocalisse, nella sua interezza, è un libro per la chiesa, ovvero per il popolo di Dio del nuovo patto. Sebbene questo assunto costituisca un’ovvia implicazione del principio della dottrina riformata storica dell’ispirazione della Scrittura (3) e sia promessa una beatitudine a tutti coloro che leggono, ascoltano e riflettono sulle parole della profezia del libro (4), il modello interpretativo preterista (prevalente nell’area liberal) (5) e quello futurista (tipico del dispensazionalismo) (6) hanno l’effetto pratico di ridurre considerevolmente “i pascoli” del gregge del Signore negando l’accesso ad ampie porzioni della parola ispirata o limitandone l’efficacia, il valore istruttivo e la potenza consolatoria. Pertanto, soltanto un modello alternativo ci consentirà un approccio pastorale più deciso anche nei confronti del libro dell’Apocalisse. Le premesse ermeneutiche dalle quali questo articolo prende le mosse sono ben espresse nei principî del “parallelismo progressivo” di William Hendriksen che, pur sottolineando l’unitarietà del libro, dimostra che esso risulta costituito da sette sezioni che raccontano “ciclicamente” la medesima storia, seppur narrandola da prospettive differenti e di volta in volta aggiungendo altri particolari o ponendo in luce aspetti diversi dell’azione divina e del comportamento umano. In questo modo, la grande narrazione dell’Apocalisse è costituita dal racconto, in uno splendido linguaggio simbolico, della storia della redenzione, con particolare riferimento al tempo che intercorre tra la venuta di Cristo e il suo ritorno (7).

Alcune semplici osservazioni basteranno per avvalorare il presupposto che l’Apocalisse sia, principalmente, un libro di altissimo valore per la cura del “gregge” affidato alla sorveglianza dei ministri del Nuovo Patto.

1. Tutta la letteratura neotestamentaria ha essenzialmente e principalmente un carattere pastorale. Nessuno scritto del Nuovo Testamento rientra nei canoni del mero trattato speculativo, didattico o parenetico. Se si considerano le parti teologicamente più dense - come le “epistole” -, si noterà che esse sono “scritti occasionali” che lasciano intravedere uno sfondo di contingenze, di esigenze particolari e situazioni locali che ne giustificano non solo il contenuto generale ma, spesso, perfino la struttura e il procedere delle argomentazioni (8). Allo stesso modo, gli scritti finalizzati principalmente all’esortazione e all’incoraggiamento non sono mai del tutto privi di contenuti profondamente speculativi e teologici. Gli scrittori neotestamentari, pur consapevoli della loro apostolicità e autorevolezza, sul piano etico ed esperienziale non si pongono su posizioni diverse rispetto ai destinatari dei loro scritti ma vi è sempre la piena identificazione del “noi” (9). A questo proposito è utile notare che il genere letterario dell’Apocalisse è quello di una profezia “apocalittica” – ovvero di “rivelazione” – scritta in forma di epistola circolare (10) e che Giovanni si presenta alle chiese con l’appellativo di “fratello” con la rassicurazione della sua partecipazione tanto alla tribolazione, quanto al regno e alla costanza condivisi da tutti i cristiani (Apocalisse 1:9). Lo scopo è quindi chiaramente quello di comunicare delle rivelazioni profetiche per incoraggiare ed esortare istruendo. In questo senso l’Apocalisse dev’essere considerata essenzialmente una “lettera pastorale” e ne deriva che i ministri del Vangelo dovrebbero farne un ampio uso per «pascere il gregge di Dio».

Ovviamente, bisogna riconoscere che gli eventi storici contemporanei alla sua stesura non solo costituiscono lo sfondo dell’intero libro, ma in certi casi si spiegano e si applicano in modo univoco ed esclusivo ad alcuni avvenimenti accaduti o prossimi ad accadere (11), mentre altri eventi rivelati nell’Apocalisse sono chiaramente quelli “dell’ultimo giorno” (12). Tuttavia, l’utilità e il valore dell’Apocalisse consistono proprio nel fatto che la gran parte del libro riguarda i principi generali del governo divino e del comportamento umano e le dinamiche del combattimento spirituale presenti in tutta la storia della redenzione e che si sono intensificati nel tempo compreso tra la venuta di Cristo e il suo ritorno (13).

2. Si consideri inoltre il messaggio del Vangelo cristiano. Il cristianesimo è una religione marcatamente escatologica. Non a caso la classica trattazione sistematica dell’escatologia cristiana è articolata in due divisioni principali: escatologia “realizzata” e “futura” (14). Le due nature di Cristo nell’unica persona, il suo insegnamento, i miracoli che compì, la sua passione e morte; e ancora: la sua risurrezione e ascensione, l’effusione dello Spirito Santo a Pentecoste non meno dell’annuncio del suo ritorno, della risurrezione di tutti gli uomini, del giudizio universale e della palingenesi dell’universo intero sono eventi escatologici che non possono e non devono mancare nella predicazione cristiana. Nessuno di essi può né deve mancare perché, nel loro complesso costituiscono “il Vangelo”. Eppure, generalmente, non è così. Sul “pulpito evangelico medio” si compie, oggi, una scissura innaturale e dannosa tra gli aspetti privati e individuali – siano essi doveri o privilegi – e quelli collettivi e universali mettendo in evidenza i primi e trascurando i secondi, dimenticando così che la predicazione del Vangelo è l’annuncio di un messaggio escatologico che riguarda non soltanto la salvezza e i doveri di individui, ma primariamente la sorte dell’universo intero; che la croce di Cristo – il cuore del Vangelo – non è il rimedio al mio o al tuo problema, ma la soluzione divina al problema del male morale universale.

Il Vangelo cristiano è la realizzazione e la ripartenza della speranza del popolo di Dio che si era nutrito ed era stato confortato dalle promesse divine riguardanti la venuta del Messia e del regno di Dio, dell’instaurazione di un “nuovo patto”, di una restaurazione nazionale d’Israele che accogliesse anche “tutte le altre famiglie della terra”, di una grande e generalizzata effusione dello Spirito di Dio, della venuta del “giorno del Signore” e della creazione di “nuovi cieli e nuova terra” (15). Una tale fede e speranza sono meravigliosamente espresse nei cantici di Maria e di Zaccaria e nell’esultanza di Simeone e Anna di cui scrive Luca (16). Costoro, insieme a molti altri, israeliti e non, riconobbero che era giunto “il futuro promesso” e, allo stesso tempo, si protesero verso un futuro più distante ma non meno certo. Limitarsi a considerare la predicazione di Cristo e degli apostoli come “l’annuncio del perdono e del dono della giustizia” sarebbe estremamente riduttivo poiché la salvezza cristiana ha un’estensione cosmica e culmina e si compie con la «restaurazione (avpokata,stasij) di tutte le cose» (17). L’insegnamento di ciò che noi definiamo “escatologia”, nella chiesa apostolica, non costituiva un locus per specialisti, ma era parte dell’insegnamento elementare (18). Il Vangelo non può fare a meno dell’escatologia, quando ciò si verifica esso è snaturato e impoverito di forza e valore.

Da ciò ne deriva che leggere l’Apocalisse per rintracciarvi eventi passati, presenti o futuri è una banalizzazione del suo messaggio. Nel migliore dei casi, si tradurrà praticamente nell’esortazione a “prepararsi al ritorno di Cristo” (19) e, nel peggiore, alla segregazione individualistica e settaria dell’escapismo cristiano. Una sana lettura dell’Apocalisse – così come di tutta la profezia biblica –, invece, produce il vero conforto perché riconosce che il suo scopo è etico, ancorché annalistico o cronologico (20), e ricuce lo strappo tra l’impegno nel presente e la speranza nel futuro producendo e alimentando nei credenti una visione del mondo distintamente cristiana e insegnandoci a vivere nel mondo alla luce delle promesse e delle speranze suscitate e alimentate dal Vangelo.

Presto o tardi, chiunque è seriamente coinvolto nel ministero cristiano comprenderà che un pastore evangelico deve possedere e deve essere in grado di formare nel popolo che lo ascolta una “mentalità escatologica” e ciò, molto spesso, non solo come “strategia di sopravvivenza”, ma principalmente come efficace mezzo di proclamazione, consolazione ed esortazione. Il seguito di questo articolo chiarirà in che modo, in linea generale, sulle premesse a cui ho accennato, l’Apocalisse ci insegna a pensare e a vedere il mondo, la storia e la nostra missione e come tutto ciò possa applicarsi alla vita di una chiesa locale.

 

La trascendenza e l’immanenza di Dio

Il Dio cristiano è l’Altissimo, ma anche l’Emmanuele. L’Apocalisse si apre con la visione del Cristo glorificato, risplendente, maestoso e terribile; eppure, lo stesso Cristo, è colui che cammina “in mezzo ai candelabri” (Apocalisse 1:13; 2:1). Il Dio trino: il Padre (“colui che siede sul trono”), il Figlio (“l’Agnello in mezzo al trono”), e lo Spirito Santo ( “i sette spiriti di Dio), (cfr. Apocalisse 1:4; 4:3, 5; 5:1, 6, 13) non soltanto abita una luce inaccessibile e regna in cielo adorato da angeli e santi, ma domina su tutto e regna sul mondo intero (Apocalisse 5:12, 13; 11:5, 17). La mano che tiene la “verga di ferro” è stesa per toccare e risollevare il suo servo esiliato e sopraffatto dalla maestosità della sua gloria (Apocalisse 1:17: 2:27) e le preghiere dei santi sulla terra sono udite al pari di quelle di coloro che stanno dinanzi al suo trono (Apocalisse 8:3-4). Si potrebbe continuare a lungo così. L’unità di Dio e la sua trinità, al pari della sua trascendenza e immanenza, sovranità assoluta e condiscendenza nei confronti degli uomini sono temi ripetuti continuamente nell’Apocalisse che offrono ampie possibilità di applicazione alle vicende umane dei credenti e delle chiese. Come afferma Giovanni Calvino, «[Dio] si presenta a noi quale unico Dio e si offre, per essere contemplato, distinto in tre persone; e se non guardiamo bene a queste persone, Dio si ridurrà ad un termine vuoto senza forza né potere, svolazzante nei nostri cervelli» (21). Ciò che è vero nella “contemplazione di Dio” – ovvero nella sua adorazione – lo è anche in ogni altro aspetto della relazione dei credenti con lui.

Gli aspetti differenti dell’essenza e del carattere di Dio di cui si è detto, quindi, devono essere sapientemente ed equilibratamente posti in evidenza nella predicazione cristiana. Insistere troppo sulla sua condiscendenza nei confronti degli uomini o sulla sua “somiglianza agli uomini” (che è un capovolgimento della rivelazione biblica) consegna alla chiesa un Dio “umanizzato”, rassicurante e perfino “utile” nell’ordinario e per “l’evangelico occidentale medio”, ma incapace di rispondere alle esigenze di chi deve affrontare delle gravi prove, in tempi di guerra o di persecuzione, di intensa sofferenza o di malattie terminali. D’altro canto, però, la presentazione esclusiva di un Dio esaltato, glorioso e giusto, sovrano e assolutamente libero nella sua volontà, ma impersonale o indifferente nei confronti delle azioni e delle scelte umane, rende impossibile una reale “comunione” tra il Creatore e la creatura e, quindi, qualunque relazione fondata sull’amore reciproco. Cristo è il Luminare, ma anche lo Sposo della chiesa; egli è l’Agnello, ma anche il Leone, il Giudice, ma anche il Salvatore (22). Il conforto di cui i cristiani hanno bisogno non è l’illusione effimera di un mero sollievo psicologico, ma ciò che dà loro nerbo e coraggio per vivere onorando Dio offrendo una testimonianza coerente, perseverando nel fare il bene e fuggendo il compromesso. Tale conforto si trova nello stesso Dio contemplato da Isaia il cui trono era «alto, molto elevato» (simbolo della sua trascendenza) e i cui «lembi del suo manto riempivano il tempio» (figura della sua immanenza) (Isaia 6:1) (23). La visione contemplata da Isaia, nel suo complesso, è la medesima di quella offertaci dall’Apocalisse; essa può e deve confortare tutti i suoi lettori.

 

La sofferenza e il trionfo dei cristiani

Altro tema di notevole rilevanza pastorale è quello della sofferenza e della vittoria (24). Giovanni ci mostra come l’umiliazione e la morte di Cristo non furono la sua sconfitta ma posero le basi del suo trionfo e della definitiva e completa vittoria. Colui che è stato morto, adesso è vivo e detiene tutta l’autorità (Apocalisse 1:18). Colui che è in mezzo al trono, l’unico degno di prendere il libro dei decreti divini e dar corso agli eventi della storia è descritto come «un Agnello che sembrava essere stato immolato» (Apocalisse 5:6). Questa vittoria ottenuta in modo paradossale è semplicemente inconcepibile per la mente umana (25). La croce è stata, è e sempre sarà “scandalo e pazzia” per coloro che non possiedono «il senso delle cose di Dio» (26). L’Apocalisse, in perfetto accordo con il messaggio dei Vangeli (27) e delle epistole, ci mostra che i discepoli di Cristo ottengono la vittoria seguendo la medesima via segnata dal loro Maestro. Giovanni è compagno dei suoi lettori «nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù» (Apocalisse 1:9). Tribolazione, regno e costanza sono le tre realtà presenti, inscindibili e caratterizzanti l’esperienza di tutti i discepoli di Cristo fino al suo ritorno. In certi tempi e luoghi la tribolazione è più intensa. In altre circostanze e luoghi, invece, è riversata abbondantemente la grazia comune o quella speciale. Nel corso della storia umana intere nazioni sono state visitate con la miseria, la persecuzione e la morte, alternate, poi, a gloriose stagioni di risveglio e di benedizione mediante straordinarie effusioni dello Spirito Santo, che hanno avuto l’effetto di cambiare il volto della società civile. Nel secondo caso il senso della vittoria e del regno con Cristo possono apparire più distintamente e prevalere facendo addirittura credere e sperare in un progressivo, imminente e definitivo rovesciamento di ogni sistema empio (28). Eppure, il ripetersi dell’espressione «chi vince» seguito da verbi al tempo futuro (29) ci ricorda che il pieno godimento della vittoria deve ancora venire. Il grido dei martiri che chiedono vendetta a Dio (Apocalisse 6:9-11) e le miriadi che provenivano «dalla grande tribolazione» (Apocalisse 7:14) ci ricordano della necessità dell’abnegazione cristiana e del “prendere la croce”. Il tempo che intercorre tra la venuta di Cristo e il suo ritorno è caratterizzato dalla tensione tra la contemporanea presenza delle benedizioni della nuova epoca e la permanenza degli effetti della corruzione e della vanità alla quale è stata sottoposta la creazione. Questa tensione è stata definita con l’espressione “già e non ancora” (30). Ciò fu chiaramente annunciato da Cristo nel suo discorso profetico quando, rispondendo alla domanda dei discepoli circa ciò che generalmente definiamo come “segni dei tempi”, rivelò che fino al suo ritorno la chiesa avrebbe osservato la contemporanea crescita e sviluppo del regno di Dio e della potenza del male, calamità e devastazioni, la chiamata e la preservazione di tutti gli eletti, l’apostasia e la tribolazione (31).

Perché il giusto soffre? Perché i malvagi sembrano prevalere? Perché l’errore è così diffuso e contamina ampie porzioni della chiesa? E perché gli uomini non imparano nulla dalle loro sofferenze e dai giudizi che si abbattono sulla terra da parte di Dio? Come avviene la chiamata di tutti gli eletti di Dio? Quante volte sono state poste queste domande ad un pastore! Le risposte dell’Apocalisse a questi interrogativi sono chiare e semplici: le cose non stanno esattamente come le vediamo dalla terra, qui ed ora. Bisogna riuscire a vedere “dietro le quinte” del grande dramma della storia (32), aspettare con pazienza (33), bisogna perseverare fino alla fine (34) e non scendere a compromessi prendendo apertamente posizione contro ogni idolatria, eresia ed empietà (35).

Tuttavia, sebbene la battaglia sia aspra, il trionfo dei cristiani è certo. Essi sono uniti a Cristo e, con lui, sono più che vincitori (36). Non solo “nell’ultimo giorno”, ma già ora, nel tempo della loro tribolazione, nel luogo e nelle circostanze preparate da Dio per loro, essi conoscono il ristoro e la protezione divine dall’ira del Dragone (37). C’è uno scopo nelle sofferenze che patiscono perché, nel mondo in cui essi vivono, sono necessarie per compiere il bene in favore del prossimo (38) e saranno remunerate in giusta misura da Dio, al ritorno di Cristo (39).

 

La testimonianza e la separazione

L’Apocalisse è il libro del “martirio” anche in un altro senso, quello che riguarda più direttamene l’etimologia di questo termine. I cristiani sono un popolo di “testimoni” di Cristo, grande e supremo «testimone» (martys) (Apocalisse 1:5; 3:14). Giovanni si trova in esilio, a Patmos, per «la testimonianza (martyrìa) di Gesù» (Apocalisse 1:9). Antipa, martire a Pergamo, è qualificato con gli stessi titoli di Cristo «fedele testimone» (Apocalisse 2:13). Dinanzi a Dio vi sono miriadi di “testimoni” (Apocalisse 6:11) e «la testimonianza» è l’attività e la responsabilità dei cristiani di tutti i tempi (Apocalisse 6:9; 12:17; 19:10). Il capitolo 11, quello dei due testimoni, con la sua descrizione del tempio, dell’altare, degli adoratori, del cortile esterno, «sottolinea aspetti diversi ma complementari del nuovo popolo di Dio» (40). I discepoli di Cristo sono sale e luce per il mondo in cui vivono sperimentandone l’odio. Mediante le buone opere, la resistenza al compromesso, la fedele proclamazione del Vangelo al cospetto di tremendi nemici e una cultura anticristiana, mediante una vita sinceramente devota vissuta nell’adempimento della propria vocazione là dove la provvidenza divina li ha posti, i cristiani danno testimonianza della potenza rinnovatrice del Vangelo e della Signoria di Cristo. D’altra parte, un altro aspetto della loro testimonianza è la chiamata alla “separazione”, ovvero alla santità. Essi devono separarsi dalla contaminazione che è nel mondo e che si introduce anche nella chiesa mediante l’eresia, i falsi profeti, il prevalere dell’egoismo e dell’orgoglio (41). Questa duplice vocazione alla testimonianza e alla separazione, molto spesso costituisce una tensione di non facile soluzione per la mente e l’esperienza di molti cristiani. Dalle parole di Gesù, pronunciate nella sua preghiera sacerdotale (42), comprendiamo che l’odio del mondo, verso i suoi discepoli, costituisce per loro una fonte di grande tentazione. Egli prega affinché non siano tolti dal mondo, ma preservati; affinché, pur rimanendo nel mondo siano santificati; affinché, piuttosto che fuggire dal mondo, lo affrontino invadendolo con il messaggio del Vangelo. L’Apocalisse ci racconta la storia di questo conflitto sanguinoso, spietato, terminale e ci esorta sia a non conformarci al mondo, sia a non segregarci da esso. Molto probabilmente, la tremenda minaccia alla chiesa di Laodicea (43) origina dal compromesso che aveva permesso – o aveva mantenuto – il suo arricchimento (44). I Laodicesi non meritavano il titolo di “fedeli testimoni” perché, conformandosi alla loro cultura, non costituivano più una sfida per il mondo. Con la loro condotta avevano espulso Cristo e loro desistenza li aveva fatti divenire tiepidi (45). D’altro canto, la chiesa di Efeso, con la sua passione per la correttezza dottrinale e una vita ecclesiale ordinata, viene biasimata per la perdita dell’amore e dello zelo primieri che erano stati fecondi di molte buone opere (46). Anche Efeso, come fonte di luce, corre il rischio di essere rimossa del suo luogo perché, ripiegandosi su se stessa ha cessato di promuovere aggressivamente e a costo di gravi rischi il progresso del regno di Dio. La separazione alla quale siamo chiamati non deve intendesi come fuga e perdita del contatto vitale con la società in cui viviamo. Piuttosto nei limiti imposti dalla provvidenza divina e secondo i doni distribuiti da Cristo, bisogna coltivare la mentalità del confronto intelligente e l’ambizione di penetrare ogni fascia o strato sociale, come fece l’apostolo Paolo nei suoi viaggi missionari. La missione della chiesa è universale: uomini, donne, bambini, vecchi, dotti, ignoranti, religiosi moralisti e peccatori spudorati, ricchi e poveri… tutti devono essere raggiunti col messaggio del Vangelo. La chiesa non può permettersi di escludere una sola di queste categorie di persone poiché Gesù non lo ha fatto. Il vanto di una chiesa è annoverare tra le sue fila ogni categoria di persone e non quella di raggiungere un target monospecifico selezionato in laboratorio. Quando ciò avviene, generalmente la chiesa si chiude in sé stessa e si pone sulla difensiva creando una sottocultura, divenendo una setta ed offrendo a tutti l’impressione di essere tale. Anche in questo modo, più che lievito della società, diviene il suo rifiuto ed escremento.

Quale vocazione seguirò nella mia vita? In che modo posso glorificare Dio nel mio lavoro? Quali principî devono guidarmi nello svolgere il miei ruoli di genitore, marito, moglie, figlio cristiano? Da quali principî deve essere governata la nostra partecipazione alla vita associata? A questi interrogativi, che sorgeranno prepotentemente dovunque il Vangelo è predicato in tutta l’ampiezza delle sue implicazioni, non si possono offrire risposte immediate, tuttavia, l’impegno a partecipare al conflitto tra il regno delle tenebre e quello della luce e la separazione da ciò che è idolatria, corruzione e peccato, alla quale l’Apocalisse ci richiama, costituisce una sfida per ogni pastore a cercare di «capire bene quale sia la volontà di Dio» e di consigliare nel timore di Dio i credenti che a lui si rivolgono chiedendo aiuto e orientamento. 

Per chi non si smarrirà nel disperato e minuzioso tentativo di interpretare i particolari del simbolismo dell’Apocalisse, questo libro della Bibbia costituisce una grande risorsa ed anche un versatile strumento dal quale trarre dei principi generali applicabili alle più svariate situazioni storiche ed esistenziali. L’escatologia cristiana deve avere la funzione di tradurre in speranza le verità speculative della fede e, così, dare senso e motivazione alle fatiche e agli sforzi del popolo di Dio. Louis Berkhof, citando Abraham Kuyper ha scritto: «Ogni altro locus teologico che lascia qualche questione irrisolta trova risposta nell’escatologia cristiana» e, continuando, dice molto bene: «Nella teologia [propria] risponde alla domanda: come avverrà che Dio sarà perfettamente glorificato nell’opera delle sue mani e in quale modo il suo consiglio si realizzerà pienamente? Nell’antropologia risponde alla domanda: come sarà definitivamente sconfitta e annullata la potenza corruttrice del peccato nell’uomo? Nella cristologia risponde alla domanda: come sarà coronata di vittoria l’opera di redenzione compiuta da Cristo? In soteriologia risponde alla domanda: in quale modo, alla fine, lo Spirito Santo porterà a compimento la glorificazione e la redenzione del popolo di Dio? In ecclesiologia risponde alla domanda: quale sarà la finale apoteosi della chiesa?» (47). Le risposte a queste domande le troviamo tutte nel libro dell’Apocalisse e sono proprio quelle di cui il popolo di Dio ha bisogno.

Inoltre, la predicazione di una escatologia che non deluda sarà un potente mezzo evangelistico.

La conclusione del “ventesimo secolo” (uno dei più sanguinosi della storia) e il modo spaventoso in cui si è aperto il “terzo millennio” (con l’11 settembre, il terrorismo internazionale e la guerra), hanno accentuato un senso già diffuso di instabilità politica ed economica a livello mondiale. In questo clima cresce il desiderio e la ricerca (a volte spasmodica e irrazionale) di “cose da credere” o di “un futuro su cui investire”. Per questa ragione l’Enciclopedia delle religioni in Italia individua la prima causa di crescita delle chiese nella loro “offerta escatologica” (48). Fuggendo la tentazione di nutrire la frivola curiosità egoistica o quella di sfruttare la paura che deriva dalla superstizione, una predicazione evangelica che non taccia gli essenziali contenuti escatologici e che spieghi la grande narrazione dell’Apocalisse, sarà una gloriosa proclamazione di Cristo e del suo trionfo per gli inconvertiti e otterrà lo scopo di dare speranza fornendo vigore per vivere e agire nel mondo.

Qualche anno addietro feci ai miei figli una sorta di promessa “aperta”. Dissi loro che un giorno o l’altro li avrei portati ad un maneggio che si trovava nelle vicinanze di casa nostra per provare la strana ebbrezza di salire in groppa ad un cavallo. Ovviamente questa promessa li eccitò moltissimo, ma il fatto che, per quanto “certa” - avevano la parola di papà - rimanesse “indefinita”, pur non facendo diminuire il desiderio, frenava i loro entusiasmi. Quando un venerdì sera, accompagnandoli a letto, arrivò la grande notizia: «Domani andremo al maneggio!», i loro occhi si illuminarono e dubito che siano riusciti ad addormentarsi immediatamente. L’indomani mattina Luca, il più piccolo dei due, si svegliò molto presto e, balzando giù dal letto, andò dall’altro dicendo: «Giovanni, alzati! Oggi è domani!». Il grande giorno era arrivato e non si poteva più indugiare, né rimanere a letto. Questa è una debole illustrazione del dinamismo e dell’abbondanza di sentimenti che dovrebbero animarci considerando che il “domani” promesso è già presente e spero che, unitamente a quanto detto, spingerà più di un pastore a correre col medesimo annuncio aspettando e affrettando il “domani” ancora futuro.

 

 

* "Studi ti teologia" NS, anno XVII 2006/1, pp. 42-56. Pubblicato con permesso concesso.

1 Benjamin B. Warfield, The Apocalypse, in Selected Shorter Writings, Phillipsburg, Presbyterian and Reformed, 1973, 2, p. 80.

2 Tutto ciò è stato ben evidenziato in Samuel E. Waldron, The End Times Made Simple, Amityville, Calvary Press, 2003, pp. 9-10.

3 Calvino, polemizzando con il soggettivismo dei mistici, riferendosi a 2 Timoteo 3:16, locus classicus della teologia riformata della Scrittura, condanna severamente la nozione del valore relativo al tempo e alle circostanze della parola di Dio dicendo: «È furore diabolico quello che li spinge ad affermare che l’uso della Scrittura è legato al tempo e provvisorio, dato che essa, testimone dello Spirito Santo, conduce i figli di Dio al fine ultimo della loro perfezione». Giovanni Calvino, Istituzione delle religione cristiana, Torino, UTET, I, ix, 1, p. 195. Si veda anche Francis Turretin, Institutes of Elenctic Theology, Phillipsburg, Presbyterian and Reformed, 1992, Q. xviii, 1, pp. 147-149. La confessione di Westminster, pur riconoscendo la difficoltà e la chiarezza relativa di alcune parti della Scrittura rispetto ad altre, ne afferma l’utilità e la possibilità di una sufficiente comprensione «anche per l’ignorante» (I.vii) e ciò è riferito a tutti i 66 libri della Bibbia dichiarati tutti – Apocalisse compresa – utili alla chiesa «per essere la regola della fede e della vita» (1.ii). Confessione di fede di Westminster, in Confessioni di fede delle chiese cristiane, Bologna, EDB, 1996, pp. 939-941.

4 Apocalisse 1:3; cfr. Daniele 12:4.

5 Per un esame dei vari argomenti sulla data di composizione e per una valutazione critica del modello preterista si veda G. K. Beale, The Book of Revelation, Gran Rapids, Eerdmans, 1999, pp. 4-27; 44-46. Beale illustra anche gli altri principali modelli interpretativi discutendoli brevemente e poi spiega la sua posizione definendola «Eclettismo, ovvero una forma storico-redentiva del modello idealista modificato». Ibid., pp. 44-48.

6 La premessa fondamentale di ogni forma di dispensazionalismo è una interpretazione della profezia biblica in cui si afferma che “la chiesa” sia una “parentesi” nel piano divino della redenzione e che Dio ha sempre avuto e sempre avrà “due popoli eletti”: Israele e la chiesa. Ciò è chiaramente affermato da Charles C. Ryrie, autorevole esponente del dispensazionalismo in Charles C. Ryrie, Dispensationalism Today, Chicago, Moody Press, 1965, pp. 44-48. Per una dettagliata confutazione da una prospettiva riformata e battista di questa nozione si veda S. Waldron, The End Times Made Simple, cit. pp. 136-157.

7 La posizione di William Hendriksen è amillennialista e, seppure non sia stato il primo a proporre il modello del “parallelismo” (si veda B. B. Warfield, The Apocalypse, in Selected Shorter Writings, cit., pp. 89-90), tuttavia si deve riconoscere che il suo contributo nell’isolare e codificare nove semplici principî guida per una corretta esegesi dell’Apocalisse è di grande aiuto. Tali principî sono espressi e, a mio parere, ampiamente provati in William Hendriksen, More than Conquerors, Gran Rapids, Baker, 1998, pp. 16-50.

8 Si veda Donald A. Carson, Duglas J. Moo, Leon Morris, An Introduction to the New Testament, Grand Rapids, Zondervan, 1992, pp. 231-232 dove viene discusso il genere letterario delle epistole.

9 Giovanni è lo scrittore del NT che più di chiunque altro utilizza la seconda persona plurale identificandosi spesso con i suoi lettori. Come nel caso di Ezechiele, anche Giovanni è un simbolo per il popolo di Dio e la sua vicenda personale diviene un paradigma degli eventi a cui il popolo di Dio è destinato (cfr. Ezechiele 4; 24:24).

10 G. K. Beale, The Book of Revelation, cit., p. 37.

11 Sicuramente contingenti devono considerarsi le situazioni particolari delle chiese descritte ai capitoli 2 e 3.

12 Sono sicuramente eventi futuri la risurrezione generale, il giudizio finale, la nuova creazione di cui si parla ripetutamente e in forme diverse ma che sono pienamente rivelate nei capitoli 20-22.

13 William Hendriksen, More than Conquerors, cit., p. 22.

14 Si veda l’opera classica e, a mio parere, non ancora superata di Anthony A. Hoekema, The Bible and the Future, Grand Rapids, Eerdmans, 1979, p. ix.

15 Sul tema della speranza del popolo di Dio si veda Cornelius P. Venema, The Promise of the Future, Edinburgh, Banner of Truth, 2000, pp. 3-23.

16 Luca 1:46-56; 67-79; 2:29-32, 38.

17 Atti 3:21; Matteo 19:28; 2 Pietro 3:13; Apocalisse 21:1-5.

18 Ebrei 6:1. Si consideri che le due epistole ai Tessalonicesi, dove troviamo la più ampia esposizione dell’escatologia paolina, furono scritte per istruire, correggere e confortare una giovane chiesa.

19 René Pache, Il ritorno di Gesù Cristo, Fondi, UCEB, 1979, p. 365ss.

20 Benjamin B. Warfield, The Millennium and the Apocalypse, in Works of Benjamin B. Warfield, Grand Rapids, Baker, 1981, 2, p. 646.

21 Giovanni Calvino, Istituzione della religione cristiana, Torino, UTET, 1971, I.xiii.2, 1, p. 225.

22 Si vedano: Apocalisse 21:2, 23; 5:5-6; si confronti Apocalisse 20:11-15 con Matteo 25:31-33 e Atti 17:31 per l’identificazione dell’Agente del giudizio con Cristo e si consideri che «il libro della vita» di Apocalisse 20:15 è, senza dubbio «il libro della vita dell’Agnello» di cui si parla in Apocalisse 13:8 e 21:27.

23 Una bella illustrazione della potenza consolatoria della predicazione del carattere di Dio da Isaia 6 la si può leggere in John Piper, The Supremacy of God in Preaching, Grand Rapids, Baker, 1990, pp. 9-10 dove il pastore Piper racconta come dei genitori cristiani, membri della sua chiesa, sono stati sostenuti e incoraggiati dalla contemplazione della gloria di Dio allorché scoprirono che uno dei loro figli aveva subito violenze sessuali da parte di un loro parente adulto.

24 Si veda G. K. Beale, The Book of Revelation, cit. pp. 171-172.

25 Si ricordi la reazione dei discepoli all’annuncio delle necessarie sofferenze vicarie da parte di Cristo: Matteo 16:21-23; 17:12-13; 22-23; 20:18-19 e paralleli.

26 Matteo 16:21-23 e paralleli.

27 Il Vangelo di Giovanni, molto più dei sinottici, ci offre una teologia della passione di Cristo molto elaborata. Giovanni, introducendo fin dal principio il tema della morte sacrificale e sostitutiva di Cristo (Giovanni 1:29; 36; 2:18-21; 3:14-15) ci mostra che il Signore descrisse la sua morte in termini di “innalzamento” (Giovanni 3:14; 8:28; 12:32-34) e che la sua passione fu altresì la sua gloria (Giovanni 1:14; 7:39; 12:16, 23; 13:31; 21:19) ed insiste nel mostrare che, perfino nei particolari, nulla avvenne per un concorso di circostanze esterne, ma che Cristo fu in grado di gestire e dominare gli eventi che lo portarono alla sua condanna e alla morte in croce (Giovanni 14:4, 5, 7). Si veda G. K. Beale, The Book of Revelation, cit. pp. 171-172. Robert L. Raymond, John beloved Disciple, a Survey of His Theology, Geanies House, Christian Focus Publications, 2001, pp. 60-61.

28 A questo proposito si consideri l’opinione espressa da Jonathan Edwards - che deve intendersi come una sorta di proiezione piuttosto che come una previsione – il quale ritenne possibile che il ritorno di Cristo potesse avvenire intorno all’anno 2000 sulla base della presupposizione che si verificasse una effusione straordinaria dello Spirito di Dio che avrebbe portato alla conquista del mondo intero nel giro di 250 anni. Jonathan Edwards, An Humble Attempt to Promote Explicit Agreement and Visibile Union of God’s People in Extraordinary Prayer for the Revival of Religion and the Advancement of Christ’s Kingdom on Earth, in The Works of Jonathan Edwards, Edinbugh, Banner of Truth, 1974, 2, p. 306.

29 Apocalisse 2:7, 11, 17, 26; 3:5, 12, 21; 21:7.

30 Si veda Anthony, A. Hoekema,, The Bible and The Future, cit., pp. 68-75.

31 Per una buona discussione sui “segni ei tempi” si veda Anthony, A. Hoekema, The Bible and The Future, cit., pp. 129-163; ed anche Cornelius, P. Venema, The Promise of the future, cit. pp. 113-186.

32 Dal capitolo 12 in poi la narrazione simbolica descrive la dimensione spirituale del combattimento. William Hendriksen, More than Conquerors, cit., p. 23.

33 Il termine tradotto costanza in Apocalisse 1:9; 13:10; 14:12 è u`pomonh. è descrive la paziente e attiva sopportazione di chi soffre in uno spirito cristiano.

34 Apocalisse 2:10

35 Apocalisse 2:6, 14-16; 20.

36 Apocalisse 17:14.

37 Apocalisse 12:6, 14.

38 Apocalisse 2:10. A proposito dell’utilità delle sofferenze dei cristiani per il bene altrui si considerino anche i testi di Colossesi 1:24 e Filippesi 2:17. Queste sofferenze non hanno valore espiatorio né complementare al sacrificio perfetto e irripetibile di Cristo. Si tratta di sofferenze di peccatori volontariamente compiute per promuovere e favorire il progresso e la santificazione di altri peccatori che, per la benedizione divina, divengono mezzi della sua grazia. Al capitolo 20 dell’Apocalisse, coloro che regnano con Cristo sono descritti come dei “martiri”. Ricordandoci che il linguaggio è simbolico, Warfield scrive: «Al veggente tutti i santi di Cristo appaiono come martiri del mondo. “Poiché agli occhi di Giovanni – come giustamente è stato affermato – tutti i discepoli di un Signore martirizzato sono martiri”». B. B. Warfield, The Millennium and the Apocalypse, cit., p. 652.

39 Apocalisse 22:12.

40 G. K. Beale, The Book of Revelation, cit. p. 570. Si veda anche W. Hendriksen, More than Conquerors, cit., pp. 126-132.

41 Apocalisse 2:2, 6, 14-16, 20-24; 3:4; 15-19; 18:4; 22:11.

42 Giovanni 17:14-18

43 Apocalisse 3:16

44 «La prosperità economica dei laodicesi era dovuta probabilmente a un alto grado di volontaria cooperazione con le corporazioni commerciali idolatre e con le istituzioni economiche della loro cultura». G. K. Beale, The Book of Revelation, cit. p. 304.

45 Apocalisse 3:15-17.

46 Apocalisse 2:2-6. Si veda Donald A. Carson, Love in Hard Places, Wheathon, Crossway, 2002, pp. 175-195.

47 Louis Berkhof, Systematic Theology, Grand Rapids, Eerdmans, 1938, p. 665.

48 «Le Chiese e le denominazioni cristiane o di origine cristiana che crescono più rapidamente [in Italia] sembrano essere quelle che manifestano particolare interesse per l’escatologia, le profezie apocalittiche e la fine del mondo». Enciclopedia delle religioni in Italia, Torino, LDC, 2001, p. 18.

 

 

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