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Una riflessione sulla morte del regista Mario Monicelli

Io intrapresi grandi lavori… Poi considerai tutte le opere che le mie mani avevan fatte, e la fatica che avevo sostenuto per farle, ed ecco che tutto era vanità, un correre dietro al vento, e che non se ne trae alcun profitto sotto il sole.  (Ecclesiaste 2:4,11)

Da giovane ero un grande amante del cinema. Prima dell’esistenza dell’home cinema e dei film in affitto e in streaming, andare a vedere un film era sempre un evento, eppure di molti film che ho visto non ricordo quasi nulla o, per lo meno, non ho memoria dei sentimenti  provati all’uscita dalla sala. In questi giorni, però, in seguito alla notizia della morte di Mario Monicelli, suicida a 95 anni, un ricordo è riaffiorato alla mia consapevolezza, vivo e nei minimi dettagli: la tristezza e il senso di vuoto provati dopo aver visto il film che lo stesso regista aveva diretto nel 1982, “Amici miei atto secondo”. Allora avevo 18 anni e quel film mi fece riflettere molto profondamente. La fine è tristissima e l’ultima inquadratura si ferma su un Tognazzi che, costretto su una sedia a rotelle, cerca di trovare qualche scampolo di senso alla propria esistenza partecipando ad una gara per disabili nella quale rimane ultimo. Ma, ancora più triste dell’epilogo, è il messaggio dell’intero film...

 

 

Io intrapresi grandi lavori… Poi considerai tutte le opere che le mie mani avevan fatte, e la fatica che avevo sostenuto per farle, ed ecco che tutto era vanità, un correre dietro al vento, e che non se ne trae alcun profitto sotto il sole.  (Ecclesiaste 2:4,11)

Da giovane ero un grande amante del cinema. Prima dell’esistenza dell’home cinema e dei film in affitto e in streaming, andare a vedere un film era sempre un evento, eppure di molti film che ho visto non ricordo quasi nulla o, per lo meno, non ho memoria dei sentimenti  provati all’uscita dalla sala. In questi giorni, però, in seguito alla notizia della morte di Mario Monicelli, suicida a 95 anni, un ricordo è riaffiorato alla mia consapevolezza, vivo e nei minimi dettagli: la tristezza e il senso di vuoto provati dopo aver visto il film che lo stesso regista aveva diretto nel 1982, “Amici miei atto secondo”. Allora avevo 18 anni e quel film mi fece riflettere molto profondamente. La fine è tristissima e l’ultima inquadratura si ferma su un Tognazzi che, costretto su una sedia a rotelle, cerca di trovare qualche scampolo di senso alla propria esistenza partecipando ad una gara per disabili nella quale rimane ultimo. Ma, ancora più triste dell’epilogo, è il messaggio dell’intero film: il senso di impotenza e smarrimento che, presto o tardi, coglie tutti coloro che vivono solo all’insegna del presente, dell’immanente e non hanno alcuna speranza ben fondata sul proprio futuro e sul futuro del mondo. Anche quella che sembrava una banda di inguaribili e spensierati bontemponi, si ritrova a misurarsi col senso della vita, con la sofferenza severa, e scopre che le parole rimangono strozzate in gola e che, quando il dolore e la morte si avvicinano davvero fino a toccarti nella carne viva, non è possibile continuare a ridere di tutto, su tutto e a qualunque costo.
Purtroppo per molte persone queste sono riflessioni che si fanno solo in retrospettiva. Quel pensiero non mi abbandonò; ed è forse per questa ragione che, all’età di vent’anni, uno dei primi libri della Bibbia che lessi con maggiore interesse fu l’Ecclesiaste.
Salomone visse a lungo, ricercando e procurandosi molti piaceri. Quasi tutti quelli possibili e, di sicuro, tutti quelli a disposizione di un re ricco e potente al culmine del proprio splendore. Ai piaceri sensuali e a quelli indotti da “sostanze” vi aggiunse quelli dei successi ottenuti nella ricerca in ogni campo dello scibile e a questi, l’orgoglio e la soddisfazione procurati dalla consapevolezza di aver compiuto “grandi opere” destinate a durare nel tempo e nella storia. Eppure… la somma di tutto ciò non è : «Felicità della felicità, tutto nella mia vita è felicità»… ma il triste ritornello che tutti coloro che hanno letto l’Ecclesiaste non dimenticheranno mai e che confessa che la scoperta del cuore, dopo la fatica dei muscoli e la stanchezza della mente è che: in questa vita tutto appare vuoto, vano e inutile.
Cosa rimane da fare a chi percepisce la vita in questo modo? Come comportarci quando tutto sembra volgersi inesorabilmente verso “la fine”; quando tutto scivola via come la sabbia asciutta dal pugno chiuso su una spiaggia deserta in un torrido  pomeriggio d’estate? Dove ci attaccheremo quando ci viene negato anche l’ultimo piacere, anche l’ultima soddisfazione e sentiamo l’aria venirci a mancare?
La risposta, in fondo, è molto semplice. In quei momenti faremo quello che abbiamo fatto in tutta la nostra vita. Se abbiamo speso la nostra esistenza solo nella ricerca dell’affermazione di noi stessi, quando non avremo più nulla da affermare potremo raccogliere le ultime nostre forze per compiere un ultimo atto di autodeterminazione che, magari, potrà essere considerato “con rispetto” da alcuni e condannato o scusato da altri, ma che sarà solo l’estrema e più palese testimonianza al nostro egoismo e alla nostra presunzione di essere soltanto noi stessi gli arbitri e gli artefici della nostra esistenza. Se, invece, avremo vissuto una vita all’insegna della speranza, di una fede in Dio che è stata nutrita con sani e ragionevoli argomenti, se avremo servito Dio e il prossimo, secondo i comandamenti di Cristo, allora saremo pronti ad affrontare qualunque prova e glorificheremo Dio “sia con la vita sia con la morte”.

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